Marie entrò al Caffè I Glicini quando erano appena suonate le dodici. Era arrivata al cimitero alle undici, aveva sistemato le begonie, i fiori preferiti dalla mamma e, come sempre, le aveva raccontato quello che le era successo durante la settimana. Andava a trovare sua mamma Elena ogni settimana, da quando lei era morta, a quarant’anni, gettandosi dal quarto piano della sua casa. Marie aveva ventidue anni, era musicista come la mamma ed era la sua unica figlia. Il padre aveva abbandonato la madre quasi subito dopo la sua nascita e loro due erano vissute insieme fino al momento della sua morte.
Si sistemò al solito tavolo, il secondo in prima fila, con vista viale alberato. La giornata era grigia e nuvole nere minacciavano pioggia abbondante. Dopo poco, arrivò la cameriera Rose che le era diventata ormai familiare.
«Buon giorno, Marie. – disse subito Rose appena la riconobbe – Come sta? Visto che tempo? C’è un insolito vento caldo. Speriamo non arrivi la bufera.»
«Sto bene, grazie, solo un leggero mal di testa.»
Ordinò un the al latte con biscotti che, in quel bar, erano veramente squisiti. La cameriera si allontanò e comunicò alla barista le ordinazioni.
Il Caffè I Glicini era gestito da sole donne: la barista Anna, mora 30 anni, la cameriera ai tavoli, Rose, ventenne e bionda, la più giovane, la cassiera Elisabetta, rossa, 40 anni, sposata e la cameriera al banco dei dolci, Cristina 25 anni, riccia. Il locale si trovava nei pressi del Cimitero monumentale, il più grande della città. Da tempo era diventato il rifugio dal dolore che dominava intorno e dall’odore della morte che aleggiava nel vicino camposanto. Quando si entrava nella caffetteria si era come avvolti dal profumo del caffè e dei dolci, tutti di produzione artigianale. Un posto accogliente, con dieci tavoli, un grande bancone caffetteria e, accanto, una vetrina con brioche, tranche di torte, dolci vari ed anche primi per il pranzo. Di fronte al bancone, da poco, era comparso un juke-box che ravvivava il locale con le sue luci colorate e la musica che diffondeva. La cassa era in fondo. Era un bar molto frequentato, soprattutto dai parenti dei defunti seppelliti nel cimitero. Nel locale si poteva cogliere un’atmosfera molto particolare perché era come il palcoscenico di situazioni assai diverse che rispecchiavano gli stati emotivi dei suoi avventori: si passava dalla disperazione alla malinconia, dalla tristezza allo scoramento ma erano frequenti anche rabbia o allegria fuori misura, spesso causate dagli alcolici che diventavano una consolazione temporanea alle perdite subite.
Quella mattina erano occupati tre tavoli: quello di Marie e altri due. In uno, a destra c’era un signore di cinquant’anni ed aveva un’aria piuttosto truce. In un altro, a sinistra, era seduto un ragazzo che dimostrava una ventina d’anni, aveva una folta capigliatura e un aspetto gradevole, pur con qualcosa di misterioso. Marie si sentì osservata da lui, come se l’avesse riconosciuta, nonostante fosse la prima volta che lei lo vedeva.
Quando Rose venne a portare il the, lei, sottovoce, le chiese:
«Lo conosci quel ragazzo del tavolo vicino? Mi sta osservando e non capisco perché e cosa voglia da me.»
Rose non rispose subito, rimase perplessa, quasi non volesse dire qualcosa di sgarbato alla sua cliente ma poi disse:
«No, non lo conosco. Mi spiace.»
Poco dopo, il misterioso ragazzo si alzò e si diresse verso il juke-box. Esaminò con calma i titoli proposti, poi introdusse alcune monete e pigiò J 2. Subito la macchina si mise in moto e il braccio meccanico collocò sul piatto il 45 giri scelto. Quindi la puntina iniziò i suoi giri e le note de La notte di Salvatore Adamo riempirono il locale. Marie si mise ad ascoltare stupita perché quella era una delle canzoni preferite di sua mamma. Era come se qualcuno avesse voluto dedicarle proprio quel brano.
Poi lo sconosciuto si avvicinò al suo tavolo e chiese:
«Lei è Marie, vero?»
«Sì, sono Marie, ma lei chi è? Non mi sembra di averla mai vista prima.»
«Mi scusi, lei non mi conosce, ma io conoscevo sua madre. Posso sedermi qui? Mi chiamo David McEwan. Sono un musicista. La canzone che ho scelto era una delle preferite di sua madre.»
«Sì, è vero. Ma lei come l’ha conosciuta? Al suo funerale non mi sembra di averla vista.»
«Ha ragione. Non ero presente ma il motivo non posso dirglielo. E poi, io e sua madre avevamo fatto un patto.»
«Che patto? Veramente non riesco a capire.»
«Come lei sa, sua madre era una perfezionista in tutto quello che faceva. E lo era anche nei suoi rapporti.»
«Certo, ma questo ha a che vedere col patto?»
«Sì e no, diciamo. Ora, se lei ha un po’ di tempo, le racconterò come ci siamo conosciuti e in cosa consisteva il patto. Anche con lei vorrei fare un patto. Ci vedremo qui ogni settimana e le racconterò tutta la storia. Che ne dice?»
«C’è qualcosa che mi sfugge. Comunque, va bene. Come lei forse sa, ero molto legata a mia madre e tutto quello che la riguarda per me è importante. E poi, non riesco a spiegarmi perché si sia uccisa. Non ha lasciato nessun messaggio e non conosco alcun motivo che possa averla indotta a un gesto così estremo.»
«Forse alla fine della storia riuscirà a capire meglio sua madre. Nessuno di noi è del tutto comprensibile agli altri. Siamo delle monadi che non comunicano tra loro se non con segnali che, spesso, vengono fraintesi.»
«Certo che lei è sempre più enigmatico. Posso chiederti di darmi del tu? Mi sembra che siamo quasi coetanei. Poi mi sai dire se eri un alunno di mia madre? Lei dava anche lezioni private. Che strumento suoni?»
«Suono il violino. Non ero un suo alunno, comunque. Ci siamo conosciuti a Bari. Suonavamo nella stessa orchestra, al Petruzzelli. La prima volta che la vidi aveva una camicetta bianca di seta e una gonna nera. Era elegantissima. Ma quello che mi colpì maggiormente fu il suo sguardo. Era luminoso ma, soprattutto, era come se la conoscessi da sempre. Anche lei fu incuriosita da me e, mentre suonavamo, spesso ricambiava il mio sguardo e sorrideva. Quando finì il concerto la invitai a pranzare con me. Era primavera. Andammo in un bar nei paraggi. Ricordo che prendemmo orecchiette al pesto. Ma, soprattutto, ricordo la sua voce: era come una musica per me. Mi raccontò qualcosa su di sé ed io le dissi come ero approdato a quella orchestra. Fu lì che mi propose quel patto guardandomi negli occhi e prendendomi le mani. La tournée durava circa un mese: ogni settimana cambiavamo teatro e passavamo da una città all’altra. Lei mi disse che sarebbe rimasta con me per tutta la tournée a condizione che, dopo, non ci saremmo mai piu rivisti. Io le dissi che non capivo il motivo anche perché mi sembrava che lei ricambiasse la simpatia che provavo per lei.
«Non capisci perché non mi conosci. Vedi, per me, la vita è simile ad un’opera musicale, come fosse un concerto. L’artista crea un’opera e poi questa è compiuta, definita, perfetta, una volta creata. Se volesse continuarla o ritoccarla finirebbe per sciuparla, quasi distruggerla. Io mi comporto allo stesso modo con la mia vita. Ogni periodo è come un cerchio chiuso, perfetto. Ma, per essere tale, deve chiudersi quando ancora è al suo top, altrimenti decadrebbe, si corromperebbe. Finchè suoneremo insieme saremo come all’interno del cerchio magico e la nostra relazione sarà al top. Dopo, non lo so, ma temo potrebbe diventare qualcosa di comune e io non voglio che lo diventi perché sento che tu sei straordinario.»
Questo discorso fu un vero choc per me. Era come se, nello stesso tempo, mi volesse dire due cose opposte: che mi amava ma, insieme, che mi avrebbe sicuramente abbandonato. Era una follia. Fui tentato di fuggire via per non vederla più, ma l’attrazione era veramente irresistibile e mi bloccò. Poi pensai che avrei dovuto godermi il momento e che era assurdo rovinarsi tutto, perché sapevo che non sarebbe facilmente accaduto qualcosa di simile nel corso della mia vita.
Quindi uscimmo e andammo sul lungomare. Per tutti e due il mare e il porto avevano un significato profondo e quella prima passeggiata è rimasta indelebile tra i miei ricordi. Il mare era calmo, tranquillo e barche di varia grandezza erano ormeggiate nel porticciolo. Parlammo delle nostre preferenze, delle nostre simpatie e antipatie. Mi sembrava quasi di essere nel film Il favoloso mondo di Amelie dove ogni personaggio era presentato indicando quello che amava o odiava nelle piccole cose quotidiane: ad Amelie piaceva fare questo, Amelie non sopportava quest’altro. Ecco, il clima che si era creato era simile: con lei ogni piccola cosa diventava interessante, eccitante, unica, si caricava di bellezza, di calore, di simpatia perché era come vitalizzata dalla sua presenza. Arrivammo fino alla grande ruota panoramica di viale Giannella che dava come un tocco di modernità a un paesaggio in qualche modo antico e ricordava la London Eye, la ruota panoramica di Londra o quella di Parigi agli Champs Ėlysèes. Attorno a noi si percepiva la primavera, in molti modi: nel mutare della vegetazione, nel clima più dolce e infine nell’abbigliamento, soprattutto delle ragazze che vestivano gonne leggere dai colori accesi. Poi lei mi disse che dopo il concerto mi avrebbe fatto una sorpresa. Io cercai di capire di cosa si trattasse ma non volle anticiparmi niente. La sera suonammo insieme la “Quinta sinfonia” di Gustav Mahler. Fu bellissimo perché sentivo la presenza di Elena ed era come ci fossimo soltanto noi due e non tutta l’orchestra. Alla fine del concerto lei mi prese per mano e mi invitò a salire su una Ferrari rosso fiammeggiante.
“Ecco la sorpresa!” – mi disse.
“Ma è tua?” – le risposi, stupito.
“No, è di una mia amica. Me l’ha prestata per la sfilata storica di stasera.”
Così partecipammo al corteo di auto storiche che rievocava il Gran Premio Bari, la prima gara di Formula Uno del dopoguerra e percorreva le vie del centro di Bari, costeggiando anche il lungomare. Erano auto storiche del Novecento di svariate case automobilistiche: dalla Bugatti alla Fiat, dalla Alfa Romeo alla Ferrari. Ai lati delle strade moltissimi spettatori applaudivano il carosello di auto, soprattutto ragazzi arrivati anche dalle città e dai vicini paesi. Elena stava al volante dell’auto ed era radiosa. La sua gioia era contagiosa e anche io ero entusiasta. Finita la manifestazione, dopo tre giri del circuito, andammo in un bar per concludere la nostra serata. Ordinammo da bere e parlammo a lungo delle nostre vite passate. Ogni tanto scoppiavamo a ridere, quasi senza motivo, come dei vecchi amici. Il tempo passava veloce e, senza che ce ne accorgessimo, si fecero le due di notte. Fu allora che ci scambiammo il nostro primo vero bacio. Poi rientrammo in hotel e finimmo degnamente quella eccezionale giornata.»
A questo punto, Marie interruppe David:
«Mi spiace tantissimo – disse – ma ora devo andare: ho un impegno, tra mezz’ora, dall’altra parte della città. Ma promettimi che tornerai martedì prossimo per continuare il racconto.»
«Certo che tornerò e sarò felicissimo di rivederti e di proseguire la mia narrazione.»
Intanto fuori era scoppiato un fortissimo temporale e la pioggia, tempestando la vetrina del bar, produceva un suono intenso, simile a un ticchettio. Marie pagò il conto e uscì velocemente dal locale sotto il suo ombrello giallo, mentre David rimase al tavolino a guardarla scomparire all’orizzonte.
Per tutta la settimana Marie pensò a David e al suo racconto. Non sapeva se credergli veramente. Possibile che si fosse inventato tutto, magari solo per far colpo su di lei? Era improbabile e poi sapeva troppe cose sul conto di sua madre, anche se lei non le aveva mai parlato di un incontro a Bari o di una tournée in Puglia. Tutto era molto strano. Tuttavia, non poteva negare di essere attratta da David e non vedeva l’ora di incontrarlo di nuovo.
Il martedì successivo anticipò la visita al cimitero per avere più tempo da passare con David. Come sempre, andò alla tomba della madre e le raccontò quanto le era successo, oltre che riferirle gli eventi della settimana. Avrebbe suonato in uno dei più prestigiosi teatri ed era molto impegnata nelle prove. Alle undici e trenta entrò al bar sperando di vedere David. Ma lui ancora non era arrivato. Scambiò due chiacchere con la cassiera che era molto simpatica, come del resto tutte le altre cameriere del locale. Il tempo, questa volta, era splendido, ma Marie era sulle spine perché ancora David non era arrivato. Al bancone una coppia stava sorbendo lentamente un caffè ma le loro espressioni del viso non lasciavano dubbi sul dolore che provavano, sicuramente per la perdita di una persona cara. Marie si avvicinò allla vetrina dei dolci e ordinò un diplomatico. Poi raggiunse il juke-box e fece risuonare le note de Il cielo in una stanza cantata da Gino Paoli che rimase a sentire seduta al suo tavolino. Finalmente, David arrivò, verso mezzogiorno e, subito, la salutò.
«Buon giorno, Marie. Come stai?»
«Ciao David. Sto bene, grazie. E tu?»
«Benissimo e felice di rivederti.»
«Anch’io e sono ansiosa di sentire come va avanti la tua storia.»
«Bene, allora inizio. Ma forse prima tu vuoi ordinare qualcosa. Cosa ti va di mangiare?»
«Io prendo un primo e un bicchiere di acqua minerale grazie. E tu?»
«Io niente, grazie. Sono a posto.»
Poco dopo, Rose arrivò e prese le ordinazioni, senza tuttavia esimersi dal commentare le condizioni metereologiche.
«Visto che bella giornata! Verrebbe voglia di farsi un viaggio, vero?»
«Sì, Rose, e tu dove vorresti andare?»
«Io? A Londra. Non ci sono ancora mai stata.»
«Io a Parigi. La conosco bene ma è il posto ideale per me.»
Andata via Rose, David riprese la sua narrazione.
«Ora torniamo al racconto. Il giorno dopo ci svegliammo insieme ed Elena mi comunicò che quella mattina avremmo partecipato a una gara. Io ero preoccupato perché non sapevo di cosa si trattasse e lo feci presente alla tua mamma.
“Senti Elena- le dissi – io non sono bravo a pilotare un auto sportiva come la tua Ferrari.”
“Sì, lo so, infatti guiderò io!” mi rispose candidamente.
“Ah sì? – esclamai sorpreso -Non sapevo che tu fossi anche pilota!”
“Vedrai, sempre che tu voglia seguirmi.”
“E me lo chiedi? Certo che sì! Sto vivendo uno dei momenti più belli della mia vita e non voglio perdermelo, per nessun motivo. Non sono cose che capitano facilmente.”
Così salimmo di nuovo in macchina e presto la mia agitazione sparì perché, come del resto era prevedibile, non si trattava di una gara di velocità, ma di regolarità. Le auto avrebbero dovuto mantenere una velocità costante e i piloti ottenevano o perdevano punti ogni qual volta si attenevano o si discostavano dalla tabella di marcia prevista. Io così diventai copilota aiutando Elena a rispettare la media che controllavo continuamente. Il circuito era lo stesso della sera prima, da percorrere per tre volte. Ai lati della strade la folla aspettava con trepidazione l’arrivo delle auto acclamando, di volta in volta, questo o quel concorrente. Fu un’esperienza molto entusiasmante ed Elena si dimostrò un’eccellente pilota. I suoi occhi erano scintillanti per la gioia e per l’emozione –credo- sia di gareggiare, che di avermi accanto. Alla fine della gara ottenne un inaspettato terzo posto, su quarantacinque concorrenti, guadagnandosi anche una splendida coppa. Quindi andammo a pranzare insieme in un elegante ristorante del centro. Il locale era moderno, il servizio eccellente e i prezzi veramente contenuti. Non si poteva trovare di meglio. Ordinammo specialità locali che degustammo con sommo piacere. Durante il pranzo Elena mi raccontò alcuni episodi della sua infanzia ed io le parlai di Liverpool, dove avevo vissuto i miei primi anni di vita, prima di trasferirmi in Italia.»
A questo punto David si interruppe perché era arrivato il primo ordinato da Marie. Così lei si mise a mangiare, quasi in silenzio, mentre David la osservava con una strana espressione del volto. Marie pensava che David avrebbe proseguito, appena lei finiva di mangiare, ma non fu così.
«Mi spiace – disse -oggi sono io a doverti lasciare perché ho un impegno alle tre, in un posto distante.»
«Va bene – rispose Marie- proseguiremo la prossima settimana.»
«Certo replicò David- e vedrai che ci saranno altre sorprese.»
Detto questo, David uscì velocemente dal locale, mentre Marie restò a guardarlo scomparire. Rimase seduta al tavolino perché voleva che quel momento magico si prolungasse. E anche questa volta fu lei a mettere una canzone al jukebox: era una melodia che sua mamma amava moltissimo, Ne me quitte pas di Jacques Brel, un cantautore francese. Poi abbandonò il Caffè con addosso una vena di malinconia.
La settimana passò in fretta. Ogni tanto Marie ripensava a David. Non aveva il suo recapito e neanche il suo numero di telefono. Se lui non si fosse presentato il martedì successivo avrebbe potuto non rivederlo mai più e questo pensiero la angosciava. Ma poi, dentro di sé, sapeva che lui sarebbe ritornato, fino a quando non avesse terminato di raccontare la sua storia con la mamma.
Il martedì successivo Marie arrivò al cimitero con largo anticipo rispetto al suo solito. Quel giorno era in corso una sepoltura, non lontano dalla tomba della madre ed erano presenti in molti alla cerimonia. Marie si fermò ad osservare il piccolo corteo attorno alla tomba. I volti esprimevano le più varie emozioni: alcuni dolore, altri preoccupazione, altri ancora rabbia o rassegnazione. In ognuno di loro la morte aveva provocato sensazioni diverse e talora contrastanti. Marie ripensò a quello che aveva provato al momento della morte della mamma. Si era sentita come tradita eppure non nutriva rancore o risentimento nei suoi confronti. Ora che aveva conosciuto David si chiedeva se il suicidio avesse a che fare con le idee che la madre aveva sui momenti perfetti. La vita della madre poteva apparirle compiuta perché lei era all’apice del successo e aveva praticamente ottenuto tutto quello che voleva: una professione appagante, sia perché adorava la musica sia perché le consentiva di girare il mondo, una figlia alla quale voleva bene e la realizzazione delle sue storie d’amore. Se poi non si era voluta sposare di nuovo, questa era stata una sua scelta. Eppure, qualcosa le sfuggiva, di sicuro. Perché uccidersi proprio allora? Avrebbe potuto aspettare altri dieci o venti anni oppure avrebbe potuto cambiare vita e porsi altri obiettivi, altri traguar tornò alla tomba della madre e questa volta, quasi fissando la foto che la ritraeva da giovane le chiese:
«Perché lo hai fatto? Perché? Perché? E poi, cosa rappresentava David per te?»
Naturalmente non ebbe risposta e, con la testa confusa, tornò al bar.
Il bar era insolitamente affollato dai parenti del nuovo defunto. Molti tavoli erano pieni.
Marie, comunque, riuscì a sedersi al suo tavolo preferito e ordinò un cappuccino e un mattoncino ovvero una pasta greca, come molti la chiamavano, in attesa dell’arrivo di David. Questa volta David la raggiunse in anticipo, verso le 11, 30.
«Buongiorno Marie! Hai passato bene la settimana?»
«Grazie. Sì, in questo periodo sono molto impegnata con le prove per il mio prossimo concerto. E tu?»
«Tutto bene grazie! Oggi il bar è quasi pieno. C’è troppa confusione!»
«Sì, dà noia anche a me. Ma noi abbiamo la nostra narrazione e ci concentreremo su di essa.»
«Sicuramente. Allora eravamo rimasti al pranzo dopo la gara.»
«Esattamente. Nel pomeriggio Elena mi propose una nuova pazzia, come le chiamava lei e, ancora una volta, non mi disse niente fino a quando arrivammo sul posto. Camminammo sul lungomare fino ad arrivare alla rotonda. La pazzia era salire sulla ruota panoramica. Io non c’ero mai stato, anzi temevo che mi venisse il capogiro o il vuoto allo stomaco, insomma credevo che sarei stato un po’ scombussolato. Lei invece era entusiasta e mi travolse con la sua euforia.
Fu un’esperienza bellissima. Lo spettacolo che si godeva da lì era eccezionale. Si dominava tutto il porto e buona parte di Bari e poi, quando la ruota prendeva velocità, eravamo come risucchiati nel vortice, quasi sfidassimo le leggi di gravità. Provavo sensazioni contrastanti: ebrezza, paura e vuoto ma, anziché esserne terrorizzato, volevo che queste sensazioni continuassero. Probabilmente era l’adrenalina che faceva il suo effetto. Quando scendemmo a terra fu come se la terra ci girasse ancora attorno, si muovesse, ma ero così felice di quanto avevamo vissuto che non di. Marie
resistetti e la baciai di nuovo. Poi andammo al porto a vedere le navi e le imbarcazioni ormeggiate. Io le parlai del porto di Liverpool che era stato riqualificato e che era diventato un’area culturale con il complesso architettonico della Albert dock che ospitava musei famosi come la Tate Gallery e The Beatles story.
Lei invece rievocò Genova, il suo porto, i carruggi e i cantautori che erano stati per lei come la colonna sonora della sua infanzia: Gino Paoli, Fabrizio De André, Luigi Tenco, Bruno Lauzi. Poi mi disse che adorava gli chansonnier francesi e che la città dove avrebbe voluto vivere era Parigi. Restammo sul lungomare fino al tramonto, quando le luci dei lampioni si accesero e offrirono uno spettacolo suggestivo ed unico.
Quindi rientrammo in hotel e finimmo anche quella giornata insieme. Il giorno dopo eravamo liberi da impegni ma, quando mi svegliai, tua madre era sparita. La cercai sotto, nella hall, ma non c’era. Mi dissero che era uscita presto. Io mi sentivo smarrito. Ormai mi ero abituato a lei. E poi ero anche preoccupato. Non aveva lasciato nessun messaggio, nessun avviso. Rimasi in hotel ad aspettarla. Poi scesi nella hall e mi chiamarono. C’era un biglietto con queste parole: -Vieni a Lecce. Sono al Caffè Alvino. Elena. -»
A questo punto David dovette interrompere il suo racconto perché tutto il bar fu come in subbuglio. Non si capiva cosa fosse successo ma la polizia, senza alcuna spiegazione, intimava a tutti i presenti di uscire. Poi, qualcuno disse che c’era stata una segnalazione di una bomba nel bar e che dovevano controllare. Intanto si era fatto tardi e Marie non poteva più restare. Si accordarono di rivedersi, come sempre, il martedì successivo. Marie era ormai disorientata, non sapeva che pensare ma, prima di capire bene, voleva ascoltare la fine del racconto. Iniziò tuttavia a indagare su David. Fece ricerche sui giornali e chiese notizie agli amici di sua madre ma non riuscì a trovare nessun indizio che potesse risalire a lui. Mc Ewan, del resto, era un cognome abbastanza comune: su internet rintracciò un produttore musicale australiano, un giocatore di calcio e più di trenta omonimi ma nessuno che potesse corrispondere alle notizie che aveva su di lui. Avrebbe chiesto aiuto a Irene, una sua amica giornalista per saperne di più. Ormai voleva andare a fondo della questione.
Il martedì successivo il locale era, stranamente, quasi deserto. David arrivò puntuale. Marie aveva preparato alcune domande da fargli e pensò di fargliele subito, prima che ricominciasse il racconto.
«Senti, David, volevo chiederti cosa fai ora e se avevi rivisto mia madre dopo la tournee.»
«Per il momento non sto lavorando. No, non ho rivisto tua madre dopo il nostro incontro anche se non ho scordato niente di lei.» – rispose David piuttosto evasivamente. Marie pensò che avrebbe proseguito le sue indagini personali e che, per ora, era meglio ascoltare la conclusione della storia.
«Allora, ti stavo dicendo del biglietto. Elena aveva anticipato il trasferimento a Lecce dove era fissata la successiva tappa della tournée. Non capivo però perché non mi avesse avvisato. Ma tua madre era imprevedibile, come tu, sicuramente, sai bene. Così la raggiunsi a Lecce, al bar Alvino, il miglior bar di Lecce. Ci sedemmo a un tavolino fuori, insieme a tanti turisti e ordinammo due caffè e due pasticciotti al pistacchio, la specialità locale, una vera delizia per il palato. Tua madre mi disse che aveva un appuntamento a uno studio medico e non mi aveva detto nulla perché, quando si era svegliata, io dormivo profondamente. Si era comunque premurata di lasciare un biglietto per avvisarmi. Probabilmente il portiere si era dimenticato di darmelo e, solo dopo, aveva rimediato all’errore.
Le chiesi che controlli doveva fare ma lei fu evasiva e mi disse solo che soffriva di una sindrome ma che non le creava grossi problemi se non quello di effettuare periodici controlli. Dopo aver finito la consumazione andammo a fare un giro per chiese: Lecce era un gioiello barocco e riscoprirla con lei era qualcosa di eccezionale. A Mezzogiorno tornammo al Bar Alvino per pranzare e ci scattammo alcune foto che poi avrei riguardato ossessivamente. Quindi raggiungemmo l’hotel dove l’orchestra alloggiava e, ancora una volta, festeggiammo, con tutti i crismi, la nostra unione. Il giorno dopo suonammo al Politeama di Lecce e la musica si mescolò a quella che vivevo con Elena. Nei giorni successivi ci trasferimmo a Foggia, poi a Martina Franca e infine a Matera. Restammo sempre insieme: eravamo inseparabili. Io vivevo una sensazione contraddittoria. Da una parte ero felice ma se pensavo che presto sarebbe finito tutto provavo una immensa malinconia. L’ultimo giorno, a Matera, avvenne qualcosa di molto strano e inaspettato, ma questo te lo racconterò la prossima volta.»
Marie rimase delusa perché voleva sapere la fine della storia ma, nello stesso tempo, fu contenta perché così aveva l’occasione di rivedere David al quale, ormai, si era affezionata. Quando David la salutò, questa volta, le disse qualcosa di particolare: «Sappi che per me tua mamma è stata l’unica donna che ho amato.»
Marie, appena lasciato il bar, contattò la sua amica giornalista e fissò con lei un appuntamento al Caffè I Glicini per il martedì successivo alle undici, prima dell’incontro con David. Durante la settimana il tempo fu molto piovoso e quel martedì pioveva acqua a catinelle. Marie arrivò al cimitero infagottata e col suo inseparabile ombrello giallo che strideva un po’ con il luogo ma che, per lei, era diventato come la coperta di Linus. Alla tomba della madre, quella mattina, Marie restò meno del solito ma notò che qualcuno aveva messo dei fiori, accanto ai suoi. Quando raggiunse il bar la sua amica Irene era già seduta con un’aria insolitamente cupa, lei che di solito era allegra ed estroversa.
«Ciao Irene! Grazie per essere venuta! Sei stata tu ad aver messo i fiori alla tomba di mia madre?»
«Sì, Marie! Lo sai che quando hai bisogno di me io ci sono e che ero molto affezionata a tua madre!»
«Sì. Allora, dimmi cosa hai scoperto!»
«Prima di dirtelo vorrei che tu non pensassi che sono matta perché quello che ti dirò è sconvolgente e non so neanche come prenderai la cosa.»
«Che succede? Mi devo preoccupare? Così mi inquieti. Se non sapessi che tu sei la razionalità fatta persona penserei che vuoi spaventarmi o che mi stai solo prendendo in giro.»
«Ora ti dirò tutto quello che ho scoperto. E non riguarda soltanto David Mc Ewan ma anche tua madre. Ho fatto accurate indagini ed ho anche parlato con qualche dottore che conosceva bene tua madre.»
«E cosa hai scoperto?»
«Allora, andiamo con ordine. David Mc Ewan era un musicista ed effettivamente ha fatto parte della stessa orchestra nella quale suonava tua madre. Anche lui violinista. Ma il problema sta nel periodo, negli anni nei quali è avvenuto questo. La tournée e la gara automobilistica di cui mi hai parlato sono avvenute venti anni fa. Ma non è tutto! David Mc Ewan è morto a Matera in un incidente automobilistico, venti anni fa, proprio l’ultimo giorno della tournée. Guidava una moto e andò a finire contro un albero.»
«Ma come? Io ci ho parlato per quattro volte questo mese. Come faceva ad essere morto? Io non sono pazza. Non ho le allucinazioni! Come è possibile tutto ciò?»
«Sai, io penso che tu ti sia così immedesimata con tua mamma che hai finito col vedere quello che lei stessa avrebbe voluto vedere: cioè il ragazzo che lei non aveva mai smesso di amare, quel David Mc Ewan che tu hai avuto l’impressione di vedere. Poi, i medici che ho consultato mi hanno detto che tua madre, un mese prima di morire, aveva contratto una malattia senza ritorno ma non aveva voluto far sapere niente a nessuno e non voleva neanche diventare un peso per chi le voleva bene. Questo il motivo del suo suicidio. Non so se oggi il tuo amico David verrà di nuovo a completare la storia ma penso che io ora, in qualche modo, lo sostituisco. Dopo che aveva conosciuto tua madre e dopo lo strano patto che aveva fatto con lei, aveva lasciato scritto che avrebbe voluto essere seppellito nel cimitero della città di tua madre. E così è stato. Se vuoi ti mostro la sua tomba che si trova non lontano da quella di tua mamma.»
Così quel martedì, anziché incontrare David al bar, Marie andò a parlare con lui davanti alla sua tomba e da allora, quando va a trovare sua madre, passa sempre anche a salutare David.
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